
Testi liturgici: Is 61,1-2.10-11; 1Ts 5,16-24; Gv 1,6-8.19-28
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Comincio con il voler sottolineare alcune espressioni tratte dalle letture e che hanno molta importanza. Per questo le vogliamo tenere presenti in questa riflessione omiletica.
Nel salmo responsoriale abbiamo ripetuto: “La mia anima esulta nel Signore”.“Esultare” significa provare una grande gioia.
Nella prima lettura abbiamo ascoltato: “Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio”. Ritorna l’invito ad esultare pieni di gioia. Questo, però, non è limitato solo a noi stessi, ma va fatto conoscere anche ad altri. Ed infatti appena poco prima aveva detto: “Il Signore mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai poveri”.
Anche nella seconda lettura si parla di letizia: “Siate sempre lieti”. La “letizia” non consiste nell’avere una semplice e temporanea soddisfazione, sia pure serena e gioiosa, ma è una condizione tale da non esaurirsi mai.
Ebbene, tutte queste espressioni stanno dando la definizione a questa terza domenica di Avvento, che da sempre è stata definita quale: “domenica della gioia”.
Per quale motivo deve esserci questa gioia?
Perché, siamo vicini al Natale, nel quale celebriamo Colui che è venuto a salvarci, colui che veramente ci riempie di gioia e letizia.
Ma attenzione a comprendere bene!
Essere “lieti”, essere pieni di gioia inesauribile, non significa essere esentati da difficoltà e sofferenze, da incomprensioni e calunnie, o da quanto altro vogliamo aggiungervi, ma sta nell’esserlo anche in mezzo alle prove.
In altre parole, significa capire che tutta la nostra vita, con i suoi eventi belli o meno belli, ha senso solo se sappiamo trasformare questi eventi in una gioiosa attesa dell’incontro con il Signore, cosa questa che deve avvenire tutti i giorni, credendo veramente che solo lui è l’unico a portarci la vera gioia.
Ciò premesso, non potendo però esperimentare tutto e subito – perché il Signore ha i suoi modi e i suoi tempi - il cristiano vive esercitando anche la speranza, cioè vive in una attesa sempre serena, convinto che è il Signore a condurre la storia per il meglio, e questo anche nelle situazioni più assurde che potremmo incontrare.
Questo perché la speranza non poggia sulle proprie capacità, ma solo sulla luce, sulla grazia e sull’aiuto del Signore. Tutto questo, però, ad una condizione, quella di assomigliare a Giovanni Battista, cioè nel sapere dare come lui un certo nostro tipo di testimonianza.
Ecco le precise parole riferite a Giovanni: “Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva rendere testimonianza alla luce”.
Riferite a noi cosa vogliono dirci?
Significano, a modo di similitudine, che dobbiamo assomigliare ad uno specchio. Lo specchio non possiede la nostra immagine, ma l’acquista solo se lo poniamo dinnanzi a noi, permettendo a lui di poterla trasmettere a chi gli sta di fronte.
Analogamente questo vale anche per la nostra vita di fede. Noi non possediamo in prima persona quei valori o quelle esperienze sinora trattati, perché appartengono a Dio. A noi resta il compito di farlo agire, per poter divenire nelle sue mani strumenti capaci di trasmetterle ad altri.
Ed allora cosa significa assomigliare a Giovanni?
Significa che noi, con le parole e soprattutto con lo stile di vita, diamo modo agli altri di poterla in qualche modo a percepire, anche se non credono o non vivono pienamente la presenza di Gesù nella loro vita.
È la nostra missione, ed è una bella e grande missione che ci dà modo di mettere in pratica le parole di Giovanni, potendo dire: “Non sono io la luce, ma devo rendere testimonianza alla luce”.
Sac. Cesare Ferri rettore Santuario San Giuseppe in Spicello