Riflessioni di don Ferri in ritiri
"Vieni al Padre, fonte di Misericordia"
14 dicembre 2025 * S. Giovanni della Croce
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Perdono il male ricevutoRiflessione tenuta dal rettore alle famiglie riunite in ritiro il giorno 3 settembre 2017 presso il Santuario San Giuseppe in Spicello di Terre Roveresche.
L'amore non tiene conto del male ricevuto
(Testo di riferimento: Mt 21, 33-44)
Per il documento: clicca qui
Premessa
Chi di noi non ha ricevuto offese o torti, a volte anche calunniosi, da parte di altri, di qualsiasi altro, ivi comprese le persone con le quali siamo od eravamo legati anche da amicizia e affetto, a cominciare dal coniuge, dai figli, dai familiari!
Da notare, poi, che l’offesa ricevuta tanto più ci ha fatto soffrire, quanto più il legame vicendevole era stretto. Ed ancor di più ci ha fatto soffrire quanto maggiori erano stati i sacrifici profusi per il servizio e la cura amorosa verso tali persone.
Come comportarsi di fronte a simili situazioni?
Paolo ci illumina e ci dice che l’amore non tiene conto del male ricevuto.
Cosa vuol dire questo?


Un episodio eloquente
Mi introduco con episodio, molto eloquente. L’ho trovato e letto di recente.
Vi è scritto: <Un giorno d’autunno, uno dei soliti giorni lavorativi, sale come di consueto in autobus un uomo che, nel tragitto verso il luogo di lavoro, legge avidamente l’ingombrante giornale del giorno. È tanto sprofondato nella lettura che mai si accorge di quello che accade attorno a lui.
Ma quel giorno d’autunno, dopo solo qualche minuto, ecco sedersi a distanza un papà con tre figli maschi. Il bus, praticamente ed in quel momento, è soltanto per loro.
I bambini non stanno fermi un attimo, si alzano, si siedono, poi si rialzano e si rincorrono l’un l’altro nello stretto corridoio del bus, emettendo suoni sguaiati e striduli, soprattutto quando per una frenata brusca del conducente si scontrano tra di loro.
L’uomo del giornale lancia più volte occhiate minacciose ai bambini noncuranti, e soprattutto il suo sguardo è colmo d’ira verso il giovane genitore.  Si trattiene per un po’, sperando che questo padre sgridi finalmente questi scalmanati.
Ad un certo punto non ce la fa più e sbotta: “Ma insomma, è questo il modo di educare i suoi figli? Possibile che lei non sia capace di riprenderli?”.
Dopo una breve pausa, piena di riflessione, il papà pacatamente risponde: “Mi scusi per il disturbo arrecatogli dai miei gioielli… in altre circostanze li avrei rimproverati… ma in questo momento stiamo tornando dall’ospedale dove era ricoverata mia moglie, ma che è deceduta da qualche ora.
Da quel momento cade un generale silenzio. Possiamo solo immaginare come si sia sentito il signore del giornale!>.
È un episodio che, ovviamente, non ha bisogno di commenti. Però ci aiuta ad applicarlo a noi ed al nostro rapporto con gli altri.
Molte volte pensiamo di ricevere del male dagli altri, pensiamo che volutamente intendano ferirci o, quanto meno, che non pensano come il loro comportamento possa arrecarci disturbo e danno.
La realtà oggettiva, invece, potrebbe essere ben diversa.
Noi, infatti, vediamo solo l’esterno con i conseguenti comportamenti ed azioni, ma non sappiamo cosa c’è dentro quella persona, cosa c’è dietro di lei. Neppure possiamo pretendere di conoscere minimamente le motivazione che vi stanno dietro.
Pertanto, il presunto male che riceviamo potrebbe essere, in alcune circostanze, il miglior comportamento che gli altri, in quel momento, possano assumere ed esprimere.
L’episodio ascoltato ne è una chiara dimostrazione.
Ecco, pertanto, il motivo per cui Paolo, nel suo inno, sottolinea come: “La carità non tiene conto del male ricevuto”.

L’episodio ci invita a riflettere
A questo punto quante riflessioni si potrebbero svolgere sulla comprensione e sul perdono! Alcune le abbiamo prese in considerazione nell’incontro svolto il dicembre scorso.
Oggi ci basti evidenziare alcuni altri punti:
1.Non sempre il torto o il danno ricevuto è frutto di scelte cattive da parte degli altri.
2.Non è conveniente, proprio per il nostro bene, tener conto del male ricevuto dagli altri.
3.Dobbiamo abituarci ad essere persone che agiscono in bene e non persone che reagiscono al male.
4.Dovremmo pensare che il torto ricevuto compensa per tutte quelle volte nelle quali l’abbiamo fatta franca; diventa, pertanto, una riparazione per il male da noi compiuto.
Sul primo punto, abbiamo già detto qualcosa.
Passiamo al secondo.
Questa volta ci lasciamo condurre da Santa Caterina da Siena.
Essa dice: <Dio ci ama e ci perdona sempre. Dal momento che noi non potremmo mai ricambiare direttamente ed adeguatamente un tale amore, ecco che Dio ci dona il prossimo, affinché lo possiamo esercitare nei confronti di esso, insegnandoci a pregare così: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”>.
Questo ci dice come Dio non possa essere direttamente beneficato dall’uomo, essendo Lui l’Essere perfettissimo, il “totalmente Altro” e che, di conseguenza, noi mai potremmo glorificarlo come si merita, proprio perché è “irraggiungibile”.
Questo diventa possibile, percorrendo un’altra strada. Avviene quando celebriamo l’Eucaristia, dove in prima persona non siamo noi a ringraziare e glorificare Dio, ma è suo Figlio Gesù Cristo che lo fa a nome nostro, unendoci a Lui.
Allora noi, in prima persona, cosa possiamo fare?
Dio ci chiede un cambio di prospettiva; ci chiede il perdono dato al prossimo e l’amore profuso verso lo stesso prossimo, da considerarsi come un debito che abbiamo verso ogni uomo.
Ecco perché Paolo in altro brano dice: “Non abbiate nessun debito se non quello della carità”.
Allora, tener conto del male ricevuto, sarebbe svantaggioso per noi stessi, perché non è assolto il debito verso gli altri.
La conseguenza di ciò è che aumenta anche il nostro debito verso Dio, il quale è molto di più, rispetto a quello che gli altri hanno nei nostri confronti. Ne segue che, pagando il debito verso gli altri, diminuisce quello nostro verso Dio.
Ed eccoci al terzo punto.
Noi tutti, per istinto, tendiamo a ripagare l’altro con la stessa moneta, cioè a reagire invece che agire: se tu mi saluti, io ti saluto, ma se tu mi togli il saluto facilmente anche io, pur avendone la possibilità, smetto di salutarti.
Noi, invece, non possiamo determinare il nostro comportamento sulla scorta di quello che fanno gli altri. Dobbiamo agire, non reagire. Dobbiamo continuare ad amare gli altri, ovviamente distinguendo l’amore sensibile - cosa non necessaria - dall’amore vero che consiste principalmente in un atto della volontà. Sarà proprio tale amore l’elemento disarmante che giungerà dritto al cuore del nostro interlocutore e lo cambierà più e meglio di qualunque altra “lezione” che, istintivamente, vorremmo impartirgli.
Ed ecco giunti al quarto punto.
Utilizziamo un pensiero che si trova negli scritti di Santa Teresa d’Avila: “Il momento nel quale subisci un rimprovero ingiusto, serve per compensare quelle volte in cui tu hai sbagliato e nessuno ti ha ripreso, sia perché il tuo errore è passato inosservato, sia perché l’altro ha lasciato correre”.
Inoltre, dobbiamo pure aggiungere che ogni volta in cui veniamo criticati ingiustamente, almeno secondo noi, dovremmo riconoscere che spesso c’è sotto un fondamento di verità. Dovrebbe farci chiedere: “Perché ho dato questa impressione erronea? Cosa c’è in me che non va?”.
Insomma, conviene davvero non tener conto del male ricevuto: questa è carità verso gli altri e, prima ancora, è un sano amore verso se stessi.
Credere a tutto questo è una bella cosa, ma non basta. Si tratta di metterla in atto; solo così è una manifesta prova di amore.
A questo punto, leggiamo quanto Papa Francesco dice al n.105 dell’Amoris laetitia.
Egli si rivolge ai coniugi, ma vale per ogni situazione: <Se permettiamo ad un sentimento cattivo di penetrare nelle nostre viscere, diamo spazio a quel rancore che si annida nel cuore.
La frase logìzetai tò kakòn significa “tiene conto del male”, “se lo porta annotato”, vale a dire “è rancoroso”.
Il contrario è il perdono, un perdono fondato su un atteggiamento positivo, che tenta di comprendere la debolezza altrui e prova a cercare delle scuse per l’altra persona, come disse Gesù: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». 
Invece la tendenza è spesso quella di cercare sempre più colpe, di immaginare sempre più cattiverie, di supporre ogni tipo di cattive intenzioni, e così il rancore va crescendo e si radica. In tal modo, qualsiasi errore o caduta del coniuge può danneggiare il vincolo d’amore e la stabilità familiare. Il problema è che a volte si attribuisce ad ogni cosa la medesima gravità, con il rischio di diventare crudeli per qualsiasi errore dell’altro.
La giusta rivendicazione dei propri diritti si trasforma in una persistente e costante sete di vendetta più che in una sana difesa della propria dignità>.
Ed al n. 106 continua: <Quando siamo stati offesi o delusi, il perdono è possibile e auspicabile, ma nessuno dice che sia facile. La verità è che «la comunione familiare può essere conservata e perfezionata solo con un grande spirito di sacrificio. Esige, infatti, una pronta e generosa disponibilità di tutti e di ciascuno alla comprensione, alla tolleranza, al perdono, alla riconciliazione.
Nessuna famiglia ignora come l’egoismo, il disaccordo, le tensioni, i conflitti aggrediscano violentemente e a volte colpiscano mortalmente la propria comunione: di qui le molteplici e varie forme di divisione nella vita familiare>.
Ed al 107: <Oggi sappiamo che per poter perdonare abbiamo bisogno di passare attraverso l’esperienza liberante di comprendere e perdonare noi stessi. Tante volte i nostri sbagli, o lo sguardo critico delle persone che amiamo, ci hanno fatto perdere l’affetto verso noi stessi. Questo ci induce alla fine a guardarci dagli altri, a fuggire dall’affetto, a riempirci di paure nelle relazioni interpersonali. Dunque, poter incolpare gli altri si trasforma in un falso sollievo. C’è bisogno di pregare con la propria storia, di accettare sé stessi, di saper convivere con i propri limiti, e anche di perdonarsi, per poter avere questo medesimo atteggiamento verso gli altri>.
Al 108 poi prosegue: <Ma questo presuppone l’esperienza di essere perdonati da Dio, giustificati gratuitamente e non per i nostri meriti. Siamo stati raggiunti da un amore previo ad ogni nostra opera, che offre sempre una nuova opportunità, promuove e stimola. Se accettiamo che l’amore di Dio è senza condizioni, che l’affetto del Padre non si deve comprare né pagare, allora potremo amare al di là di tutto, perdonare gli altri anche quando sono stati ingiusti con noi. Diversamente, la nostra vita in famiglia cesserà di essere un luogo di comprensione, accompagnamento e stimolo, e sarà uno spazio di tensione permanente e di reciproco castigo>.

L’insegnamento della parabola
A questo punto la parabola ascoltata ha molto da insegnarci.
In altro contesto Gesù aveva detto che dobbiamo essere perfetti come è perfetto il Padre celeste. Ora, il solo punto per assomigliare al Padre, è quello dell’amore, proprio perché, come afferma l’apostolo Giovanni: “Dio è amore”.
Quanto amore il Signore ha profuso in noi!  È espresso simbolicamente nelle azioni descritte dalla parabola, in riferimento alla vigna cioè al suo popolo eletto: “L'aveva vangata, sgombrata di sassi, vi aveva piantato viti scelte, costruito una torre e scavato un tino”.
Veramente è un amore senza misura.
Nella realtà significa che quel bene affidato ai contadini e raffigurato nella vigna, è molto prezioso.
Prezioso per l’invio di tanti profeti ed infine preziosissimo per l’invio del suo stesso figlio Gesù. Purtroppo i contadini vignaioli si mostrano ingrati.
Ciascuno di noi è il vignaiolo che ha ricevuto da Dio, padrone di ogni cosa, la vigna da coltivare.
Applicato ai coniugi, è da individuarsi tra l’altro nel dono del matrimonio. Dio lo ha fatto bello e buono, perché gli sposi, coltivandolo, facciano splendere in esso l’amore di Cristo per la sua Chiesa.
Purtroppo, in molti matrimoni questo non avviene perché i due coniugi ed il matrimonio stesso portano in sé delle ferite, che il Papa espone nel n. 239: <È comprensibile che nelle famiglie ci siano molte difficoltà quando qualcuno dei suoi membri non ha maturato il suo modo di relazionarsi, perché non ha guarito ferite di qualche fase della sua vita.
La propria infanzia e la propria adolescenza vissute male, sono terreno fertile per crisi personali che finiscono per danneggiare il matrimonio.
Se tutti fossero persone maturate normalmente, le crisi sarebbero meno frequenti e meno dolorose. Ma il fatto, è che a volte le persone hanno bisogno di realizzare a quarant’anni una maturazione arretrata che avrebbero dovuto raggiungere alla fine dell’adolescenza.
A volte si ama con un amore egocentrico proprio del bambino, fissato in una fase in cui la realtà si distorce e si vive il capriccio che tutto debba girare intorno al proprio io.
È un amore insaziabile, che grida e piange quando non ottiene quello che desidera. Altre volte si ama con un amore fissato ad una fase adolescenziale, segnato dal contrasto, dalla critica acida, dall’abitudine di incolpare gli altri, dalla logica del sentimento e della fantasia, dove gli altri devono riempire i nostri vuoti o sostenere i nostri capricci>.
E continua al n. 240: <Molti terminano la propria infanzia senza aver mai sperimentato di essere amati incondizionatamente, e questo ferisce la loro capacità di aver fiducia e di donarsi. Una relazione mal vissuta con i propri genitori e fratelli, che non è mai stata sanata, riappare e danneggia la vita coniugale. Dunque bisogna fare un percorso di liberazione che non si è mai affrontato. Quando la relazione tra i coniugi non funziona bene, prima di prendere decisioni importanti, conviene assicurarsi che ognuno abbia fatto questo cammino di cura della propria storia. Ciò esige di riconoscere la necessità di guarire, di chiedere con insistenza la grazia di perdonare e di perdonarsi, di accettare aiuto, di cercare motivazioni positive e di ritornare a provare sempre di nuovo. Ciascuno dev’essere molto sincero con sé stesso per riconoscere che il suo modo di vivere l’amore ha queste immaturità. Per quanto possa sembrare evidente che tutta la colpa sia dell’altro, non è mai possibile superare una crisi aspettando che solo l’altro cambi. Occorre anche interrogarsi sulle cose che uno potrebbe personalmente maturare o sanare per favorire il superamento del conflitto>.
E al n. 241: <In alcuni casi, la considerazione della propria dignità e del bene dei figli impone di porre un limite fermo alle pretese eccessive dell’altro, a una grande ingiustizia, alla violenza o a una mancanza di rispetto diventata cronica. Bisogna riconoscere che «ci sono casi in cui la separazione è inevitabile. A volte può diventare persino moralmente necessaria, quando appunto si tratta di sottrarre il coniuge più debole, o i figli piccoli, alle ferite più gravi causate dalla prepotenza e dalla violenza, dall’avvilimento e dallo sfruttamento, dall’estraneità e dall’indifferenza». Comunque «deve essere considerata come estremo rimedio, dopo che ogni altro ragionevole tentativo si sia dimostrato vano»>.

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