L'amore non si adira
(Testo base: Mt 5.20-24.29-30.33-48)
Per il documento: clicca qui
Introduzione
Siamo nel discorso così detto della “della montagna”, in quanto Gesù si presenta come “Maestro” e perciò sta in cattedra, cioè in luogo rialzato rispetto a chi ascolta.
Ebbene, in questo discorso Gesù si presenta non semplicemente come un maestro ma come il Maestro unico; afferma di non essere venuto ad abolire la legge, ma a darle pieno compimento, cioè a perfezionarla, a far sì che sia osservata per amore. In altre parole, presenta la nuova legge, quella evangelica.
Applicato a noi, per meglio riuscire a mettere in pratica questa legge, è necessario comprendere che essa non è un peso o una catena, ma è un dono proprio per rendere libera e più bella la vita.
Di conseguenza, essa si osserva non solo limitandosi ad un adempimento legale e formale, per la qual cosa siamo in regola davanti al legislatore, tanto che questo vale anche se messo in pratica contro voglia, ma va osservata soprattutto per amore.
Gesù stesso lo dice e lo spiega meglio, scendendo anche nei minimi particolari, proprio attraverso i quali l’osservanza è resa più perfetta.
La nuova legge dell’amore
Gesù presenta la nuova legge dell’amore descrivendo un elenco di contrapposizioni: “Vi è stato detto … ma io vi dico”.
Ed ecco la prima contrapposizione che ci immette nella riflessione propostaci oggi: “E’ stato detto di non uccidere per non essere sottoposto a giudizio, ma io vi dico che chiunque si adira con il proprio fratello sarà sottoposto a giudizio”.
Ad essa fa eco san Paolo nell’inno alla carità, tra i cui attributi elencati ad un certo punto dice: “La carità non si adira”.
Nell’inno stesso, aveva cominciato con l’affermare che: “La carità è paziente”, per cui, a questo punto, viene spontaneo pensare se non sia questa una ripetizione.
È vero, infatti noi spesso mettiamo sullo stesso piano “ira” e “impazienza”: “Mi sono arrabbiato, mi sono adirato … ho perso la pazienza …”.
Ma in realtà c’è una differenza, anche se i due termini fra loro sono in relazione, in quanto la pazienza è una atteggiamento interiore, mentre l’ira è una manifestazione esteriore della non pazienza interiore.
Sulla pazienza abbiamo meditato nella prima riflessione di quest’anno.
In essa abbiamo anche citato la formula di preghiera che rivolgiamo a san Paolo nella quale tra l’altro si dice: “Per far conoscere il Salvatore Gesù fino agli estremi confini del mondo, soffristi carcere, flagellazioni, lapidazioni, naufragi e persecuzioni di ogni genere … ottienici di accogliere, come favori della divina misericordia, le infermità, le tribolazioni e le prove della vita presente, affinché le vicissitudini di questo nostro esilio non ci raffreddino nel servizio di Dio, ma ci rendano sempre più fedeli e fervorosi”.
La pazienza, pertanto, consiste nell’accettare con amore quello che ci fa soffrire. Questo, ovviamente, è possibile se siamo sostenuti dalla fiducia in Dio e dalla speranza cristiana.
Il tale senso, ammesso anche di essere persone abbastanza riflessive, sappiamo ben comportarci nelle varie situazioni della vita, così come esse si presentano. E di conseguenza, non abbiamo fretta, non ce la prendiamo con nessuno ed inoltre, ricordando la parabola della zizzania, sappiamo aspettare il momento opportuno per intervenire o meno, proprio in attesa di vedere ed esperimentare la soluzione.
Non dimentichiamo che, se Dio ha fatto l’universo con la sua potenza, noi riusciremo a fare qualcosa solo con l’esercizio della pazienza.
Ovviamente, si tratta di possedere un grande auto dominio. Se abbiamo questo, ad esempio, di fronte al difetto di un fratello o di una sorella e di fronte a tutto quello che può darci fastidio, non abbiamo atteggiamenti di esplicita reazione, anche se dentro bolle forte, ma sappiamo tenerci sotto controllo.
Non adirarsi
Se questo controllo mancasse, ecco che cadiamo nell’ira; cosa questa che peggiora la situazione, perché alla violenza si oppone violenza, si crea la spirale della violenza, e, procedendo di questo passo, non sappiamo dove andremo a finire.
Se, invece, alla malignità e violenza opponiamo la pazienza, viene a mancare quel certo umore che la coltiva, e pertanto la violenza muore automaticamente e tutto si rasserena.
A questo punto, però, attenzione a non confondere l’ira con l’indignazione. L’indignazione, se rimane nel suo alveo, è cosa buona. Pensiamo, ad esempio, alla giusta indignazione di Gesù di fronte ai rivenditori cacciati via dal tempio a forza di sferzate.
È il Papa stesso (AL 103) a spiegarlo bene. In riferimento alla reazione interiore di indignazione provocata da qualcosa di esterno, ci dice come comportarci: “Si tratta di una violenza interna, di una irritazione non manifestata che ci mette sulla difensiva davanti agli altri, come se fossero nemici fastidiosi che occorre evitare. Alimentare tale aggressività intima non serve a nulla. Ci fa solo ammalare e finisce per isolarci”.
E poi subito aggiunge: “L’indignazione è sana quando ci porta a reagire di fronte ad una grave ingiustizia, ma è dannosa quando tende ad impregnare tutti i nostri atteggiamenti verso gli altri”.
Quando siamo dominati dall’ira, facilmente vediamo gli altri come fastidiosi e nemici, siamo indotti a maltrattarli, ad esasperarli, a togliere loro la gioia, la pace, il gusto dell’esistenza, fino a ucciderli dentro.
È un rischio che si corre in tanti contesti, anche in quello della famiglia.
Quante volte essa diventa il luogo dove scaricarsi da tutte le tensioni accumulate nella giornata. In essa, proprio per l’intimità della vita, diventa più facile cedere all’ira, alle offese e alle parole pesanti, tutte cose che annichiliscono la personalità dell’altro.
È ancora il Papa (Al 104) che continua, citando i relativi brani biblici: “Il Vangelo invita piuttosto a guardare la trave nel proprio occhio (Mt 7,5), e come cristiani non possiamo ignorare il costante invito della Parola di Dio a non alimentare l’ira: «Non lasciarti vincere dal male» (Rm 12,21), «Non stanchiamoci di fare il bene» (Gal 6,9).
Una cosa è sentire la forza dell’aggressività che erompe e altra cosa è acconsentire ad essa, lasciare che diventi un atteggiamento permanente: «Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4,26).
Perciò, non bisogna mai finire la giornata senza fare pace in famiglia.
«E come devo fare la pace? Mettermi in ginocchio? No! Soltanto un piccolo gesto, una cosina così, e l’armonia familiare torna. Basta una carezza, senza parole. Ma mai finire la giornata in famiglia senza fare la pace!».
La reazione interiore di fronte a una molestia causata dagli altri dovrebbe essere anzitutto benedire nel cuore, desiderare il bene dell’altro, chiedere a Dio che lo liberi e lo guarisca: «Rispondete augurando il bene. A questo infatti siete stati chiamati da Dio per avere in eredità la sua benedizione» (1 Pt 3,9).
Se dobbiamo lottare contro un male, facciamolo, ma diciamo sempre “no” alla violenza interiore”.
D’altra parte, se siamo presi dall’indignazione per un mal comportamento di qualcuno, bisognerà pure far qualcosa perché tale comportamento sia rimosso.
La correzione fraterna
Ecco, allora, che a questo punto subentra la correzione fraterna, da esercitare verso tutti, a cominciare dai membri della propria famiglia. Ed ecco, allora, la correzione vicendevole fra gli sposi, e quella verso figli e nipoti.
È ancora il Papa (AL269) che interviene: “La correzione è uno stimolo quando al tempo stesso si apprezzano e si riconoscono gli sforzi e quando il figlio scopre che i suoi genitori mantengono viva una paziente fiducia.
Un bambino corretto con amore si sente considerato, percepisce che è qualcuno, avverte che i suoi genitori riconoscono le sue potenzialità.
Questo non richiede che i genitori siano immacolati, ma che sappiano riconoscere con umiltà i propri limiti e mostrino il loro personale sforzo di essere migliori.
Ma una testimonianza di cui i figli hanno bisogno da parte dei genitori è che non si lascino trasportare dall’ira. Il figlio che commette una cattiva azione, deve essere corretto, ma mai come un nemico o come uno su cui si scarica la propria aggressività.
Inoltre un adulto deve riconoscere che alcune azioni cattive sono legate alle fragilità e ai limiti propri dell’età. Per questo sarebbe nocivo un atteggiamento costantemente sanzionatorio, che non aiuterebbe a percepire la differente gravità delle azioni e provocherebbe scoraggiamento e irritazione: «Padri, non esasperate i vostri figli» (Ef 6,4; cfr Col 3,21).
Pertanto, la correzione spesso si fa più con il comportamento che con le parole; si tratta di saper accogliere chi ci sta vicino, e, riferito alla famiglia, si tratta di saper accogliere il coniuge, i figli, i nipoti e gli altri componenti.
In tale senso, si tratta di accogliere chi ci annoia con le proprie lamentele e con i suoi molti problemi di vita; sapere ascoltare tale persona, donandole tempo e, se possibile e utile, qualche parola di conforto per aiutarla ad uscirne fuori.
A questo punto, moltiplicato all’ennesima potenza, è la responsabilità dei genitori che non sanno accogliere i figli nel quotidiano. Non si tratta solo di non far loro mancare niente, o di tenerli buoni davanti al televisore o ai giocattoli, ma si tratta soprattutto del tempo a loro dedicato per ascoltarli.
È proprio questo che manca a molti genitori, perché sono stanchi e nervosi, o sono presi da altri problemi, pure importanti, ma non sempre tali da superare quello dell’ascolto dei figli. Non dimentichino che i figli hanno bisogno di affetto vero, se manca questo si apre la porta a quel certo tipo di fallimento che poi i genitori a suo tempo lamenteranno.
Oltre a questo, quali sono gli altri atteggiamenti da evitare nella correzione fraterna?
Assumere il tono del rimprovero. In tal caso, il rimproverato si pone istintivamente sulla difensiva, reagisce internamente e, se può, anche esternamente. La conseguenza è quella di non essere disposto ad ascoltare.
Farsi dominare dall’impulsività. Pertanto, non parlare mai quando si è agitati, si sbaglierebbe sempre. Parlare solo quando è passato il gusto di parlare, segno che già si è calmi. Chi a questo punto non parla più, è segno che avrebbe parlato solo per stizza, non certo per amore.
Non correggere quando la persona è alterata e non disposta ad ascoltare. Si tratta di imitare Dio che aspetta anche una vita.
Non alzare mai la voce. La voce alterata e arrogante non si fa ascoltare. Saper smettere e chiedere scusa, quando ci si accorge che l’altro ne ha a male.
L’atteggiamento vero e giusto consiste nell’essere capaci di mostrarsi come una persona che ama. Tutto questo si fa con umiltà, credendo che, al posto dell’altro, noi avremmo fatto anche peggio.
Chiedere pure all’altro di dire i nostri difetti e avvertire, a sua volta, quando vede che sbagliamo.
A fondamento di tutto, poi, si tratta di preparare, accompagnare, seguire la correzione con tanta preghiera.