Testi liturgici: Qo 1,2;2-21-23; Sl 89; Col 3,1-5.9-11; Lc 12,13-21
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“Vanità delle vanità, tutto è vanità”. È una espressione desolante, è proprio un pugno allo stomaco. Infatti, anche i progetti più grandi e belli sono destinati a finire.
È quello che a volte diciamo anche noi: “A cosa serve affaticarsi tanto? Tutto finisce, non portiamo via nulla e, poi, chi si ricorderà di noi?”.
Sembra il più cupo pessimismo, ma in realtà non lo è.
O meglio lo è, ma solo se nella vita non abbiamo dei riferimenti validi, o se il riferimento si limita solo a noi stessi, senza aprirsi ad altri.
L’insegnamento è chiaro. Prima di impegnarci, dobbiamo cercare veramente di capire se ciò per cui ci stiamo affannando sia un valore autentico, oppure solo qualcosa che, prima o poi, volerà via senza lasciarci niente tra le mani.
Qual’ è allora il vero riferimento?
È Dio! Non come uno dei tanti, ma come unico. Egli non solo non può essere estromesso nella nostra vita, ma neppure dargli una importanza relativa; senza riferimento ultimo a Dio, niente ha consistenza.
È quello che Paolo – seconda lettura - sottolinea: “Rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra”.
Non che le cose buone della terra non si debbano fare, ma solo se siamo mossi dall’amore, cioè, in quanto è il compimento della volontà di Dio; cioè quando è anche un vero bene a vantaggio nostro, della famiglia e del prossimo.
In maniera ancor più chiara e concreta, lo stesso pensiero è ribadito dalla parabola evangelica.
Quante vite spese interamente per accumulare cose, per costruire o comperare case, per rendere solido il patrimonio!
Poi ad un certo punto tutto crolla ed i conti non tornano.
Il figlio, per il quale si era costruita la casa, va a vivere altrove; le cose che avevano assorbito in maniera eccessiva tutto il nostro impegno, tanto da far dimenticare le relazioni strette con Dio (non c’era tempo di andare a Messa la domenica), con la famiglia (non c’era tempo di stare con il coniuge e con i figli) e con gli altri (gli altri si arrangino), ad un certo punto, tutte queste cose, si scolorano, tanto più perché ci si invecchia e non si riesce più a seguire tutto.
L’ultima brutta conseguenza?
Una volta che siamo passati all’altro mondo, ecco i litigi, gli scontenti, i rancori e quant’altro, per dividere l’eredità.
Non che sia sbagliato darsi da fare e cercare di garantire un futuro ai figli; lo sbaglio è quando, per realizzare ciò, si smette di avere un cuore, si smette di avere riferimenti validi.
La conseguenza di tutto questo è che viviamo la nostra esistenza in maniera triste, sempre arrabbiati, mai contenti di nulla.
Dio, che nella parabola dice a quell’uomo: “Stolto, questa notte morirai”, non gli sta facendo un dispetto, quasi che fosse geloso dei risultati di quell’uomo, ma gli ricorda solo che quella vita che sta sognando è già morta.
Dio ricorda a quell’uomo che se si mette a cercare in tutti i forzieri e ad aprire tutte le stanze, si renderà conto che fra tutto quello che avrà accumulato, manca proprio la vita.
La vita è una cosa diversa, per viverla bene bisogna essere capaci di perdere qualcosa, di condividere, di donare, di aiutare.
Soprattutto, per vivere bene, è necessario che la casa del proprio cuore somigli a tutto, meno che ad una cassaforte inespugnabile.
Concludendo, ci sono due tipi di ricchezza.
La ricchezza materiale, che ci dà l’illusione di soddisfarci; ma poi basta un attimo per far crollare tutto.
C’è un’altra ricchezza, quella spirituale. Purtroppo, per il fatto di essere meno vistosa, è cercata da pochi.
Ma se la cercassero sul serio, li renderebbe felici in questo mondo, oltre che garantirgli la felicità eterna.
Sac. Cesare Ferri rettore Santuario San Giuseppe in Spicello